L’Iran al voto, tra crisi interna e tensioni regionali

Il 28 giugno 2024, gli elettori iraniani si sono recati alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali, un appuntamento elettorale inatteso, ma reso necessario dal vuoto di potere venutosi a creare con l’improvvisa morte del presidente in carica Ebrahim Raisi, deceduto in un incidente aereo lo scorso 19 maggio. L’elicottero su cui viaggiava Raisi – a bordo del quale si trovava anche il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian – è infatti precipitato nelle foreste dell’Iran nord-occidentale.

Il primo, significativo dato che il voto ha consegnato riguarda l’affluenza alle urne: degli oltre 61,5 milioni di aventi diritto, solo 24,5 milioni – ossia il 39,3% – hanno deciso di recarsi ai seggi, a riprova di un declino nella partecipazione che pur non essendo completamente nuovo né inatteso – nel 2021 l’affluenza si era attestata sul 48,5% per un totale di 28,7 milioni di votanti – testimonia una crescente insofferenza verso il sistema di potere alla guida del paese.

A poco è dunque valsa la decisione del Consiglio dei guardiani (Shuray-e Negahban) –  che accetta o meno i candidati alle elezioni presidenziali e a quelle parlamentari, valutandone l’idoneità – di ammettere alla competizione elettorale, tra le 6 personalità ritenute idonee, anche un esponente della fazione riformista, l’ex parlamentare Masud Pezeshkian: una novità rispetto alle precedenti votazioni, quando le voci del fronte riformista furono escluse, ma evidentemente insufficiente a convincere l’elettorato, poco persuaso di trovarsi davvero di fronte a uno scenario maggiormente competitivo.

Nel Paese stanno infatti crescendo giovani generazioni che non hanno conosciuto né la Rivoluzione del 1979 né il violento conflitto degli anni Ottanta (1980-88) tra Iran e Iraq, i due pilastri su cui si fonda la legittimazione storica della Repubblica islamica: in mancanza di questo retroterra culturale dunque, la mobilitazione delle nuove leve della società iraniana può passare solo dalla tangibile prospettiva di un cambiamento, che al momento appare tuttavia assai lontano dagli orizzonti politici del regime.

D’altra parte, anche le generazioni che hanno vissuto l’esperienza della Rivoluzione sembrano oggi nutrire meno fiducia nelle istituzioni e sono state meno propense a votare, anche perché consapevoli  dei margini di manovra assai limitati di cui dispone il presidente della Repubblica, le cui decisioni sono in ultima istanza subordinate all’intesa con le altre autorità dello Stato e in particolar modo con il Rahbar, la guida suprema Ali Khamenei.

In questa cornice, sembra dunque quasi passare in secondo piano che al ballottaggio del 5 luglio saranno il riformista Masoud Pezeshkian – che ha chiuso il primo turno con il 44,4% dei consensi – e Saeed Jalili – esponente della fazione conservatrice Osulgarayan giunto secondo con il 40,3% dei voti – a contendersi la presidenza. Ciò che emerge con chiarezza è la rilevante difficoltà che le istituzioni iraniane incontrano nel tentativo di rinnovare la propria legittimazione, a seguito di una serie di eventi e circostanze che ne hanno seriamente minato la credibilità.  

Da questo punto di vista, è innegabile che le proteste di massa del 2022 – sull’onda emotiva della morte di Mahsa Amini, che ha rilanciato un intero movimento al grido di «Donna, Vita, Libertà» – abbiano seriamente indebolito il regime, incapace di elaborare una risposta diversa dalla violenta repressione che è costata la vita a più di 500 persone e ha portato a 22.000 arresti.

A livello internazionale, inoltre, l’Iran si è nuovamente ritrovato al centro delle dinamiche geopolitiche mediorientali con la ri-esplosione delle tensioni tra Israele e Hamas, a seguito degli attentati del 7 ottobre 2023. L’attacco israeliano del 1° aprile 2024 al consolato iraniano di Damasco – nel quale sono morte figure di rilievo della forza Quds – e la successiva risposta di Teheran il 13 e 14 aprile con il lancio in direzione di Israele di oltre 300 missili e droni, hanno aggiunto ulteriore instabilità a un contesto già particolarmente turbolento, facendo temere per una regionalizzazione del conflitto dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. È dunque questa la cornice all’interno della quale il regime iraniano si è trovato a organizzare in emergenza nuove elezioni presidenziali a seguito della morte di Raisi.   

Nel frattempo però, la tensione al confine israelo-libanese è sensibilmente aumentata, e il coinvolgimento nelle ostilità di Hezbollah – che ha visto colpite alcune sue basi nel sud del Libano – ha chiamato inevitabilmente in causa il governo di Teheran, che del movimento sciita libanese è il principale alleato. Rispetto a tali dinamiche, è assai improbabile che la posizione del regime possa essere in qualche modo influenzata dal futuro presidente, che in materia possiede assieme al suo gabinetto poteri assai limitati. Ciò non toglie che gli esiti del voto non lascino indifferenti i vari attori politici mediorientali, siano essi partner, alleati o nemici dichiarati degli ayatollah: non a caso, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha esortato gli iraniani a eleggere «il presidente giusto», affermando che «il futuro della regione dipende dall’Iran».

Nella sua squadra, Pezeshkian può contare su diverse personalità che hanno collaborato con Hassan Rouhani, presidente dal 2013 al 2021: tra i suoi più illustri sostenitori, spicca in particolar modo l’ex   ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, protagonista dei negoziati che portarono a un accordo (Joint Comprehensive Plan of Action, o JCPOA) volto a garntire la natura civile del programma nucleare di Teheran, in cambio di un allentamento delle sanzioni nei confronti del Paese. Tale accordo alimentò la speranza di un avvicinamento – o quanto meno di un allentamento delle tensioni – tra l’Iran e l’Occidente, prima che nel 2018 l’amministrazione Trump abbandonasse l’intesa e imponesse ulteriori, severe sanzioni contro la Repubblica islamica. 

Masoud Pezeshkian (al centro, davanti ai microfoni) con i suoi sostenitori, giugno 2024. Fonte: Wikimedia Commons.

La vera sfida per Pezeshkian, come esponente del fronte riformista, starà nella necessità di ri-mobilitare una popolazione demotivata e delusa, ma il fatto di non avere un programma specifico per problemi strutturali come l’inflazione, la disoccupazione, la corruzione e la sempre più pronunciata compressione dei diritti nel Paese potrebbe indebolirlo. Dall’altro lato dello spettro politico, Jalili è invece considerato uno degli esponenti più rigidi della corrente conservatrice, come certifica anche la sua netta contrarietà – da capo negoziatore sul programma nucleare tra il 2005 e il 2013 – a qualsiasi compromesso sul programma di arricchimento dell’uranio.   

In un Paese segnato da una grave crisi economica e in cui l’inflazione – secondo i dati ufficiali – si è attestata a giugno sul 36,1% (dopo essere salita anche oltre il 45%), la politica estera può rappresentare una leva per ottenere risultati anche sul fronte interno, soprattutto per quanto concerne l’economia; pertanto, non sorprende che in campagna elettorale l’argomento della diplomazia nucleare abbia avuto una certa rilevanza. Al momento, sull’Iran pesa ancora l’iscrizione nella lista nera FATF (Financial Action Task Force) per le carenze nelle misure di contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, e le relazioni con l’Occidente continuano a essere compromesse: in linea con quanto già deciso dagli Stati Uniti nel 2019, il 19 giugno anche il Canada ha designato il corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (Islamic Revolutionary Guard Corps, IRGC) come organizzazione terroristica, dopo anni di pressioni da parte dei parlamentari dell’opposizione e di alcuni membri della diaspora iraniana, mentre l’Unione Europea per il momento ha imposto sanzioni selettive contro strutture specifiche e funzionari dell’IRGC.

Costretto dunque dalle restrizioni a riorientarsi sulla cosiddetta economia della resistenza (Eghtesād Moqavemati), il governo di Teheran ha puntato negli ultimi tempi a riannodare i fili del dialogo con un rivale storico come l’Arabia Saudita, arrivando a siglare nel 2023 un accordo mediato dalla Cina per riattivare le relazioni politiche ed economiche con Riyad. Ancora, l’Iran è diventato membro a pieno titolo della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nel 2023 e dei BRICS nel gennaio 2024, dando ulteriore sostanza a quegli orientamenti di politica estera fortemente promossi da Raisi e dal  suo ministro degli Esteri Amir-Abdollahian a favore di un deciso rafforzamento delle relazioni con i partner extra-occidentali.

In queste elezioni presidenziali c’è comunque un interessante elemento di novità: per la prima volta, i cittadini sono infatti chiamati a scegliere tra due candidati che non fanno parte del corpo clericale e non appartengono alle scuole religiose, anche se i sostenitori di Pezeshkian hanno paragonato Jalili ai talebani in diversi post pubblicati sui social. Emblematico a tal proposito il contenuto pubblicato dall’ex ministro per le Tecnologie dell’informazione e della Comunicazione Mohammad Javad Azari Jahromi, che su X ha scritto: «Non lasceremo che l’Iran cada nelle mani dei talebani».

Nel frattempo, vari prigionieri politici come Narges Mohammadi, vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2023, Mostafa Tajzadeh, Faezeh Hashemi, Majid Tavakoli, Golrokh Irani, hanno boicottato il voto, e anche Mir-Hosein Musavi e Zahra Rahnavard, agli arresti domiciliari per il loro ruolo nelle proteste del 2009 e simboli del Movimento verde, non hanno partecipato alle consultazioni.

Ad ogni modo, chiunque sarà eletto presidente dell’Iran dovrà confrontarsi con un Parlamento (Majlis) composto per l’80% da membri dalla fazione conservatrice, nonché con consolidate gerarchie di potere all’interno della Repubblica islamica. Al di là delle promesse tipiche della campagna elettorale, difficilmente il voto produrrà novità significative nel quadro del regime.

Shirin Zakeri